La Pitturessa

Anna Paparatti negli anni ‘70 ha animato la scena dell’arte contemporanea internazionale. Gallerista, pittrice, performer senza schemi,  ora ricerca le sue radici. Tra Scilla e Cariddi.

di Donata Marrazzo

La Pitturessa ha il passo lento, leggero, da principessa indiana: spalanca la porta del suo appartamento romano sul Lungotevere insieme al suo sorriso accogliente (il tilak al centro della fronte è un po’ scolorito). Senza remore ti introduce nel suo mondo.

Nel regno di Anna Paparatti

C’è odore di incenso e uno yogi del ‘700 appeso alla parete. Un mandala antico sopra una cassapanca e sotto le miniature tantriche che l’artista compone a tempera: piccoli cerchi colorati, attraversati da reticoli cosmici. Sul lato sinistro del salotto incombe immensa un’opera di Piero Pizzi Cannella, tre vestiti bianchi, rarefatti, dipinti su tavola, e proprio di fronte la porta di legno realizzata dallo scultore Hidetoshi Nagasawa (famoso per le sue opere antigravitazionali) lascia scorgere lo studio: un piccolo cavalletto vicino alla finestra, uno scrittoio con una scatola di colori, mensole piene di libri e cataloghi di mostre. Tante foto in bianco e nero. E 16 tele che illustrano le tappe della vita di Siddartha.

Una donna controcorrente da Reggio Calabria a Roma

La Pitturessa – in ballerine di velluto, capelli raccolti in una coda, vestito di jersey nero fino alle caviglie, gioielli etnici e uno scialle fucsia sulle spalle - è Anna Paparatti, protagonista della scena artistica internazionale degli anni’70, nata a Reggio Calabria da una famiglia nobile rosarnese. Una donna controcorrente – bohémien, hippy, freak - pittrice d’avanguardia, performer senza schemi, approdata infine all’arte tantrica: amica di Cy Twombly, Jannis Kounellis, Mario Schifano, Sol Le Witt, Gino De Dominicis. Nel 1966 conobbe Fabio Sargentini, gallerista, regista, scrittore: dalla loro intensa relazione nacque Fabiana.

Fabio e Anna, un incontro cruciale

Incontro cruciale quello con il gallerista : «Anna Paparatti mi ha insegnato a uscire da una mentalità borghese e a vivere da artista», dichiara Sargentini. A presentarli fu l’amico Pino Pascali,  compagno di Anna all‘Accademia delle Belle Arti di Roma, dove erano entrambi allievi di Toti Scialoja. Pascali morì poco dopo per un incidente in moto sul Muro Torto, ma ha lasciato il segno per aver concepito l’arte anche come un artificio ludico (suoi i Cinque bachi da setola e un bozzolo), per aver trasformato le armi in giocattolo, proprio al tempo della guerra in Vietnam. Un ciondolo di cannone è il ricordo che Anna conserva ancora dell’amico.  

L’allieva preferita di Scialoja

Le lezioni tenute da Scialoja all’Accademia di Roma, dove Anna si era trasferita per allontanarsi dalla famiglia - la sua esuberanza e la sua vitalità non erano comprese, anzi creavano imbarazzo - cambiarono il suo destino. Divenne l’allieva preferita del Maestro: «Con lui ho conosciuto Burri, Pollock, Cy Twombly e ho capito che l’arte sarebbe stata la mia vita e la mia salvezza. A Roma giravano poche donne nell’ambiente, ma Scialoja mi fece capire che io ne avrei fatto parte».

L’atelier a Parigi

E accadde subito, con una borsa di studio a Parigi: «Un’esperienza straordinaria, a Parigi c’era già tutto, a Roma tutto stava per cominciare. Avevo il mio atelier nella città universitaria, compravo i colori e me li rimborsavano. Pranzavo nei bistrò convenzionati. E mi perdevo tra le opere di Mirò, Gauguin, Picasso».

Il ‘68 di Palma Bucarelli (un’altra calabrese) alla Gnam

In quegli stessi anni, Palma Bucarelli, critica d’arte e per 30 anni prima soprintendente donna in un museo pubblico (la Galleria nazionale d’arte moderna), come Anna di origini calabresi (il padre era di Locri), bella, elegante, mondana, ma anche anticonformista, promuoveva  a Roma  l’astrattismo e l’arte informale. Esponeva Burri e Piero Manzoni e scoppiavano le polemiche. Alla fine del‘68 la Gnam apriva alle avanguardie. In un panorama tutto maschile le due donne made in Calabria hanno fatto la differenza.

L’Attico, un nuovo modello di galleria nel mondo

La relazione tra Fabio e Anna è durata più di 25 anni. Insieme hanno animato l’Attico, galleria in piazza di Spagna di proprietà del padre di Sargentini, poi spostata in un garage di via Beccaria e diventata un modello per le gallerie di tutto il mondo: non più spazi contemplativi dove appendere i quadri (per venderli) ma luoghi “sensibili” in cui dar vita all’arte. La galleria romana era «un posto dove si coniugava arte e comportamento», ricorda Achille Bonito Oliva nel prezioso docufilm di Fabiana Sargentini “Tutto su mio padre” (fotografia di Simone Pierini). Era uno snodo internazionale per l’arte. Fabio, aggiunge il critico, era (e resta) un poeta del progetto. Oggi l’Attico è uno spazio sperimentale in via del Paradiso che Sargentini gestisce con la moglie Elsa Agalbato.

In viaggio negli Ashram indiani

Anna è stata una grande viaggiatrice («Anche quando Fabiana era piccola, era sempre con noi»). Ma  l’India magica, esotica, remota, di cui la donna ha incorporato la mistica e l’“umanesimo”, era la sua meta preferita: meditava negli Ashram, cercava quadri e talenti, lasciandosi ispirare da fiori di loto, stupa buddisti, paesaggi himalayani. Erano tempi di Orientalismo romantico. Herman Hesse scriveva che l’Oriente non era solo un luogo geografico, ma “la patria della giovinezza delle anime”. Siddharta era una bibbia. «Una volta a Madras ci seguirono Francesco Clemente, Luigi Ontani, Cesare Brandi», racconta Anna. Era l’Attico in viaggio: ne venne fuori una straordinaria mostra itinerante.

Mandala e vecchi cimbali

Oggi Anna - che è nonna premurosa di Flaviano - medita dipingendo mandala. Quando si sente ispirata suona le sue campane tibetane o gli antichi cimbali, strumenti ancora usati in molti rituali tibetani e hindi. Ma il suo buddhismo è soprattutto filosofia, riflessione estetica.

L’esposizione dei cavalli vivi di Jannis Kounellis

Quando Roma era davvero capitale di tutte le avanguardie, anche quelle letterarie, anche filosofiche, lo spazio gestito da Fabio e Anna era una fucina straordinaria: lì le prime mostre di Pino Pascali, Michelangelo Pistoletto, Eliseo Mattiacci, Kounellis, autorevole esponente dell’arte povera (scomparso qualche mese fa), che nel ’69 vi realizzò un’installazione con 12 cavalli vivi, prelevati dal Galoppatoio di Villa Borghese, replicata nel mondo fino al 2015: una rappresentazione del conflitto tra cultura e natura. L’arte spinta verso la vita.

Le cene futuriste

Nella vicina osteria di via dei Baullari Anna si sedeva al tavolo accanto a quello di Sarte e Simone de Beauvoir, alla Feltrinelli di via del Babuino incontrava Enzo Siciliano e Alberto Moravia, in un bar di Campo dei fiori incrociava Gabriella Ferri e sotto la statua di Giordano Bruno chiacchierava con Dario Bellezza. E poi c’erano le cene futuriste che «erano una porcheria - ammette Anna -  ma così belle da vedere, tipo aerovivanda tattile con rumori e odori, antipasto intuitivo, brodo solare. Io disegnavo i piatti e poi li facevo eseguire da un cuoco. Li mangiavano come fossero prelibatezze». Ride.

Dall’Attico passò il Living Theatre, la musica (Philip Glass, La Monte Young e il suo minimalismo musicale) e la danza (Trisha Brown e Simone Forti): l’arte, tutta, (Povera, Concettuale, la Transavanguardia, la Anarchitecture, la Narrative Art) diventava avvenimento, performance, festival spettacolari di cui Anna curava pittoricamente manifesti e locandine. E a sentirla parlare Anna, sembra quasi che quel mondo con tutti i suoi fremiti rivoluzionari sia ancora un capitolo aperto.

La vita-capolavoro di Anna Paparatti, l’infanzia

Ma la vita-capolavoro di Anna Paparatti comincia molto tempo prima, a Rosarno, in Calabria: una nonna marchesa, Clorinda Campennì, di cui conserva gli stessi occhi verdi, che andò in sposa al barone Gregorio Paparatti, latifondista della Piana di Gioia Tauro. Il salotto di damasco giallo, la cucina con il forno a legna, l’orto giardino, la servitù e le storie principesche degli antenati. Il rosario collettivo e una dispensa piena di conserve, capicolli, olive con le bucce d’arancia, collane di cipolle rosse di Tropea. «Facevo scegliere a mia nonna la merenda - ricorda Anna – con lei diventavo golosa, mentre a casa non mangiavo».

Nostalgia della Calabria

Parla con nostalgia della sua terra, anche se molti ricordi le fanno male: era una bambina ribelle e incompresa. Dice che si è sentita poco amata dalla madre. Più compresa dal padre che ha assecondato le sue passioni. In salotto, ai piedi dell’opera di Pizzi Cannella c’è una ceramica di Seminara: un mezzobusto di calabrisella con peperonicno. «Le ho ritoccato gli occhi, dipingendoglieli di verde, come i miei. Me l’ha regalata Roberto Bilotti, perché le nostre comuni radici calabresi hanno un senso profondo».  Roberto Bilotti Ruggi d’Aragona, ultimo erede di una famiglia di mecenati militanti che ha donato collezioni di grande valore al comune di Roma (dipinti, disegni e sculture all’Aranciera di Villa Borghese) al Museo del Presente di Rende e al Mab (Museo all’aperto Bilotti) di Cosenza, fine conoscitore dell’arte contemporanea che sa raccontare nei dettagli, entrando dentro le vite degli artisti, parla della Paparatti come di  una «divina rivoluzionaria, di eccezionale bellezza, che viveva immersa nell’arte. Del suo percorso ci sono preziose testimonianze nel Museo del Presente di Rende, fotografie d’autore e gli abiti disegnati per lei dagli artisti del tempo, Bruno Ceccobelli, Luigi Ontani, Piero Pizzi Cannella, Janni Kounellis. E’ stata la nostra Peggy Guggenheim», dichiara il collezionista e mecenate nato a New York ma di origini calabresi. E continua la sua missione: ha in programma a Roma, per ottobre, una mostra dedicata ad Anna, all’Aranciera di Villa Borghese. Intanto Alessandro Vasari sta eseguendo una necessaria, appassionata ricognizione fotografica della Paparatti: del suo stile, degli abiti che gli artisti hanno disegnato per lei, della Anna di oggi.

«Scilla e Cariddi del mio stesso cuore»

La Paparatti ricambia con slancio la dedizione del mecenate, scrivendo di lui (con il suo personalissimo stile, senza punteggiatura, senza maiuscole), nel libro Arte-Vita a Roma, negli anni ’60 e 70 (sottotitolo La Pitturessa, come la chiama suo nipote Flaviano - De Luca editori d’arte): «Per tutta la vita ho portato la Calabria nel cuore - ed è per questo che mi sento anche araba - normanna - albanese - spagnola – greca – (…) ho respirato il sole africano – il mare sempre rosso dello stretto – (…) e proprio adesso – intervenuta la presunta saggezza dell’età  - che è arrivato dalla calabria roberto bilotti – riproponendomi la calabria da capire – da amare- (…) bello – carnagione scura - occhi neri e vellutati - bel sorriso sincero -  e un modo di fare che trasuda nobiltà – antica saggezza – antica follia – è arrivato a cavallo – (…) e la mia figura si donna ha toccato in lui delle corde profonde – gli ricordo qualcosa del suo passato- (…) è lui che ha riaperto i miei ricordi – i miei tesori nascosti – e che mi ha detto “apriti a me” – e tutto sta venendo fuori -  scilla e cariddi del mio stesso cuore».

«Calabria, l’unico luogo cui sento di appartenere»

Di ritorno dalla mostra in Calabria, 3 anni fa, Anna, che mancava dalla sua terra dal giorno del funerale del padre, ha appuntato su un quaderno ricordi ed emozioni: quelle strane nostalgie, nostalgie di un’illusione? sensazioni struggenti - vecchie fotografie -  l’odore del mare così blu, la voglia di correre come una capretta, di toccare gli ulivi antichissimi. E poi Cosenza e quell’aria che sa di paradiso, il Pollino che mi ha offerto la sua bellezza, e San Fili con i suoi vecchi palazzi dove niente è esposto per essere visto ma solo per se stesso. Infine una promessa: voglio lasciare una traccia qui come artista e  come donna ritornando, nell’unico luogo cui sento di appartenere.

La Pitturessa
  1. Section 1
  2. Section 2